IEA – Global Energy Review 2020

IEA - Global Energy Review 2020L’International Energy Agency ha pubblicato l’edizione 2020 del Global Energy Review, che fa il punto sull’impatto del Covid-19 sulla domanda di energia globale.

Tra le previsioni dell’Agenzia più significative per l’anno in corso, quelle relative alla contrazione della domanda su base annua:

  • per quanto riguarda le fonti primarie, -9% per il petrolio (ossia, 9 Mbbl/g, poco meno dell’intera produzione saudita, o di quella di Iran, Iraq e Kuwait messi insieme) e -8% per il carbone;

  • per quanto riguarda i vettori, -5% per l’elettricità (con effetti quasi nulli sull’offerta sussidiata di rinnovabili, ma con pesanti ripercussioni su fossili e nucleare).

Le 10 compagnie petrolifere più grandi al mondo – 2019

Platts ha pubblicato l’edizione 2019 del Top 250 Global Energy Ranking. Si tratta di una classifica delle società energetiche che include operatori oil&gas, utilities, raffinatori, produttori di carbone, provenienti dalle tre macroregioni del mercato globale: Americhe, Europa-Africa-Medio Oriente, Asia.
La classifica è basata su quattro metriche (attivi patrimoniali, ricavi, profitti, ritorno sul capitale investito), secondo una metodologia specifica di Platts.

Da leggere, l’analisi di dettaglio (Europe’s show of strenght), che riporta anche una serie di commenti alla variazione della classifica rispetto all’anno scorso: una su tutte, l’affermazione di Shell, che ha scalzato Exxon dalla vetta della classifica complessiva, è dovuta all’incremento della produzione di GNL.

Qui sotto è riportata la classifica delle società a cui comunemente si pensa parlando di compagnie petrolifere (tecnicamente, “integrated oil&gas”), che quest’anno ha visto un netto rafforzamento della presenza russa.

Platts - Le 10 compagnie petrolifere più grandi al mondo (2019)

Eni è 13° in questa graduatoria, 15° se si considerano anche le “oil&gas exploration and production”, ossia le compagnie specializzate nel solo upstream.

EIA – Previsioni sul prezzo del greggio

L’Energy Information Administration statunitense ha pubblicato le previsioni relative ai prezzi spot del greggio per quest’anno e il prossimo: in media, il Brent avrà una quotazione di 65 dollari al barile nel 2020 e 68 nel 2021.

EIA – Previsioni sul prezzo del greggio 2020-2021

Cifre analoghe a quelle emerse dal consueto sondaggio tra gli esperti condotto da John Kemp di Reuters: le aspettative sono di una quotazione media del Brent tra i 65 e i 70 dollari al barile tra il 2020 e il 2024, con una lieve tendenza all’aumento.

In linea anche le previsioni della World Bank, che a ottobre prevedeva prezzi medi del greggio (media tra Brent, WTI e Dubai Fateh, nel complesso un valore più basso quindi del solo Brent) crescere da una media di 58 dollari al barile nel 2020 a 62,5 nel 2024.

Un consenso generalizzato che si basa sull’aspettativa di alcune condizioni probabili ma non scontate: tra le altre, gli analisti indicano l’assenza di una recessione globale, la prosecuzione dei tagli della produzione da parte dell’OPEC, l’aumento della domanda collegato all’entrata in vigore di standard più stringenti sulle emissioni marittime (IMO2020). Senza considerare gli effetti di crisi e fenomeni che, come sempre, accadranno in modo imprevedibile (o imprevisto). Insomma, previsioni utili, ma come sempre da tenere in considerazione con la dovuta cautela.

FT – Le questioni energetiche per il 2019

FT - Energy issues to watch in 2019Secondo Nick Butler del Financial Times, sono quattro le variabili principali che nel 2019 la cui evoluzione dovrebbe influenzare in modo determinante gli equilibri dei mercati e delle società del settore:

  1. l’impatto delle sanzioni statunitensi all’Iran, che ha già perso 1 Mbbl/g di esportazioni (a prezzi di mercato correnti, parliamo di un controvalore nell’ordine dei 20 miliardi di dollari su base annua). Quanto le esportazioni residue (1,1 Mbbl/g), è possibile che aumentino (se Teheran troverà altre vie di esportazione, magari verso la Cina o l’India) o che si riducano ulteriormente (obiettivo dichiarato di Washington, che metterebbe spingere al limite la capacità degli altri esportatori), molto dipenderà da quanto gli Stati Uniti saranno in grado di fare pressioni sui possibili acquirenti. Secondo Butler, in base all’esito potrebbero esserci oscillazioni fino a 20 $/bbl, in su o in giù;
  2. il volume degli investimenti nel settore energetico, con conseguenze di lungo periodo. Secondo la IEA, il settore ha bisogno di 2.200 miliardi di dollari di investimenti di qui al 2025 e non è chiaro se tutti gli attori coinvolti vorranno o potranno investire abbastanza. Le società private potrebbero infatti non voler accettare il rischio geopolitico connesso a molti investimenti upstream (o potrebbero direttamente non avere accesso ai Paesi, a cominciare da Venezuela, Russia e Iran), mentre le società statali potrebbero non disporre delle risorse finanziarie necessarie a investire abbastanza, soprattutto nell’adeguamento delle reti elettriche esistenti;
  3. il consolidamento nel settore delle rinnovabili. Gli operatori del settore sono altamente frammentati e incapaci di avere la scala necessaria a investire in innovazione e in investimenti di lungo periodo su scala globale. Chi porterà avanti il consolidamento? Le opzioni sono tre: le società del settore, attraverso un consolidamento interno; società come Apple o Google, in grado di usare dimensioni e digitalizzazione per far fare un salto di qualità a settore; investitori finanziari, con la visione di creare compagnie globali nel settore;
  4. le strategie degli attivisti contro le emissioni di CO2. Dopo gli esiti poco incisivi della COP24 di Katowice, le ONG più attive nella campagna contro il cambiamento climatico potrebbero ricorrere alle vie legali (tipicamente, solo negli USA) contro le società petrolifere e del carbone per costringerle a pagare per le emissioni collegate ai prodotti che vendono. Naturalmente, finora questa via ha sempre fallito. Nondimeno, gli sforzi continuano anche lungo un’altra via: gli attivisti cercano di fare causa alle società (Exxon su tutte) per aver sottostimato nelle relazioni agli investitori il danno al proprio business derivante dal cambiamento climatico. Un po’ arzigogolato, ma se si dovesse trovare il giudice simpatetico, i risultati sulle società quotate negli Stati Uniti potrebbero essere molto gravi.

Queste le principali questioni, certamente non le uniche (basti pensare alla questione dei rapporti con la Russia, a quella dell’andamento della domanda cinese e alle incertezze sulla stabilità in molti Paesi esportatori, dalla Libia al Venezuela, dall’Iraq alla Nigeria). Butler ha sicuramente ragione quando conclude che l’unica previsione sicura sul 2019 è che non sarà un anno noioso. D’altronde, gli anni noiosi mancano da tempo nel settore energetico.



Eastmed: annunciato l’accordo, ma restano molti dubbi

EastmedLa stampa israeliana – ripresa anche dall’Agenzia Nova e dal Corriere della Sera, tra gli altri – ha annunciato un accordo da formalizzare entro tre mesi tra Italia, Grecia, Cipro e Israele per la costruzione del gasdotto Eastmed, che dovrebbe trasportare fino a 15 Gmc all’anno dal Bacino del Levante fino all’Italia, transitando per Cipro, Creta e la terraferma greca.

Lungo 1.700 km, il gasdotto dovrebbe costare oltre 7 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dai media. Annunciato anche un contributo della UE di 100 milioni di euro per lo studio di fattibilità, che si aggiungerebbero ai 2 milioni già erogati in passato per gli studi pre-FEED.

Molti dubbi restano sia sulla sostenibilità finanziaria dell’operazione (tralasciando i problemi legati alle possibili dispute politiche tra Cipro e Turchia), perché il gas prodotto nella regione e i costi del trasporto via tubo non sarebbero competitivi coi prezzi del mercato europeo. A meno che non intervengano sussidi a far quadrare i conti dell’operazione, anche se non appare chiaro al momento chi potrebbe farsene carico.

All’esportazione via tubo dal Bacino del Levante [per una panoramica della situazione nell’area, suggeriamo la lettura di questo studio] esiste peraltro un’alternativa economicamente vantaggiosa: l’utilizzo dei terminali di liquefazione egiziani (Idku e Damietta), al momento fermi per mancanza di gas e che – anche considerando lo sfruttamento a regime di Zohr – offrirebbero capacità residua anche per le esportazioni israeliane. In questa direzione andavano anche gli accordi siglati a inizio anno tra l’egiziana Dolphinus Holdings e l’israeliana Noble per l’esportazione in Egitto di gas israeliano, per un controvalore di 15 miliardi di dollari in dieci anni.

In ogni caso, anche se il tubo effettivamente si facesse (cosa che al momento continua ad apparire molto dubbia) e dovesse effettivamente far arrivare un secondo tubo sulle coste pugliesi (dossier politicamente molto delicato), l’Eastmed – coi suoi 15 Gmc – non avrebbe un impatto significativo sulla struttura dell’approvvigionamento europeo: basti pensare nel 2017 le importazioni UE sono state pari a 360 Gmc, di cui 155 dalla Russia.

Diverso il discorso se guardiamo alla sola Italia, che importa 65 Gmc all’anno e vedrebbe così sensibilmente aumentare la diversificazione degli approvvigionamenti. Resta tuttavia la questione del prezzo: l’eventuale gas di Eastmed potrebbe essere competitivo coi fornitori storici (Russia, Algeria, Libia, Norvegia, tutti con infrastrutture già ammortizzate) e con TAP (i cui volumi sono stati tutti già comunque venduti per i prossimi 25 anni)? Molto difficile. Occorrerà tuttavia aspettare i dettagli dell’annunciato accordo, se e quando arriveranno, per avere una risposta.