FT – Le questioni energetiche per il 2019

FT - Energy issues to watch in 2019Secondo Nick Butler del Financial Times, sono quattro le variabili principali che nel 2019 la cui evoluzione dovrebbe influenzare in modo determinante gli equilibri dei mercati e delle società del settore:

  1. l’impatto delle sanzioni statunitensi all’Iran, che ha già perso 1 Mbbl/g di esportazioni (a prezzi di mercato correnti, parliamo di un controvalore nell’ordine dei 20 miliardi di dollari su base annua). Quanto le esportazioni residue (1,1 Mbbl/g), è possibile che aumentino (se Teheran troverà altre vie di esportazione, magari verso la Cina o l’India) o che si riducano ulteriormente (obiettivo dichiarato di Washington, che metterebbe spingere al limite la capacità degli altri esportatori), molto dipenderà da quanto gli Stati Uniti saranno in grado di fare pressioni sui possibili acquirenti. Secondo Butler, in base all’esito potrebbero esserci oscillazioni fino a 20 $/bbl, in su o in giù;
  2. il volume degli investimenti nel settore energetico, con conseguenze di lungo periodo. Secondo la IEA, il settore ha bisogno di 2.200 miliardi di dollari di investimenti di qui al 2025 e non è chiaro se tutti gli attori coinvolti vorranno o potranno investire abbastanza. Le società private potrebbero infatti non voler accettare il rischio geopolitico connesso a molti investimenti upstream (o potrebbero direttamente non avere accesso ai Paesi, a cominciare da Venezuela, Russia e Iran), mentre le società statali potrebbero non disporre delle risorse finanziarie necessarie a investire abbastanza, soprattutto nell’adeguamento delle reti elettriche esistenti;
  3. il consolidamento nel settore delle rinnovabili. Gli operatori del settore sono altamente frammentati e incapaci di avere la scala necessaria a investire in innovazione e in investimenti di lungo periodo su scala globale. Chi porterà avanti il consolidamento? Le opzioni sono tre: le società del settore, attraverso un consolidamento interno; società come Apple o Google, in grado di usare dimensioni e digitalizzazione per far fare un salto di qualità a settore; investitori finanziari, con la visione di creare compagnie globali nel settore;
  4. le strategie degli attivisti contro le emissioni di CO2. Dopo gli esiti poco incisivi della COP24 di Katowice, le ONG più attive nella campagna contro il cambiamento climatico potrebbero ricorrere alle vie legali (tipicamente, solo negli USA) contro le società petrolifere e del carbone per costringerle a pagare per le emissioni collegate ai prodotti che vendono. Naturalmente, finora questa via ha sempre fallito. Nondimeno, gli sforzi continuano anche lungo un’altra via: gli attivisti cercano di fare causa alle società (Exxon su tutte) per aver sottostimato nelle relazioni agli investitori il danno al proprio business derivante dal cambiamento climatico. Un po’ arzigogolato, ma se si dovesse trovare il giudice simpatetico, i risultati sulle società quotate negli Stati Uniti potrebbero essere molto gravi.

Queste le principali questioni, certamente non le uniche (basti pensare alla questione dei rapporti con la Russia, a quella dell’andamento della domanda cinese e alle incertezze sulla stabilità in molti Paesi esportatori, dalla Libia al Venezuela, dall’Iraq alla Nigeria). Butler ha sicuramente ragione quando conclude che l’unica previsione sicura sul 2019 è che non sarà un anno noioso. D’altronde, gli anni noiosi mancano da tempo nel settore energetico.

FT – E se a comprare Saudi Aramco fosse la Cina?

FT - Will China buy Saudi Aramco?

Nick Butler ha pubblicato questa mattina sul FT un’ipotesi che girava nell’aria da qualche tempo: il fatto che alla storica privatizzazione del 5% di Saudi Aramco, prevista forse già per il 2018, non siano azionisti sulla borsa di Londra o New York, ma il Governo cinese.

L’operazione varrebbe 100 miliardi di dollari secondo i sauditi, tra 44 e 55 secondo il FT. In ogni caso, una cifra ampiamente alla portata della disponibilità liquida di Pechino e del volume di investimenti esteri delle sue aziende, considerando che il flusso di acquisizioni cinesi nel primo semestre è stato pari a 48 miliardi di dollari.

Secondo Butler, l’operazione sarebbe plausibile in quanto la Cina, con una produzione domestica destinata a calare, ha consumi petroliferi destinati a crescere costantemente, soprattutto per quanto riguarda la mobilità: nonostante lo sforzo a favore dell’auto elettrica, nel Paese sono arrivati sulle strade 24 milioni di veicoli nuovi nel solo 2016.

Con 8,4 Mbbbl/g già oggi è il secondo importatore al mondo dopo l’UE (11,5 Mbbl/g) e nel medio periodo diventerà quasi certamente il primo mercato globale, sia per dimensioni sia per volumi importati. Assicurarsi una quota di Saudi Aramco aprirebbe la porta a nuovi accordi bilaterali sino-sauditi, anche nel settore della raffinazione.

Resta tutta da valutare l’accettabilità politica delle conseguenze, sia per i sauditi (che farebbero un deciso passo a est nella ricerca di un nuovo protettore), sia per i cinesi (che si troverebbero invischiati ancora di più nelle dinamiche mediorientali, a dispetto delle loro politiche di basso profilo), sia per gli statunitensi (che si troverebbero sfidati pesantemente nella propria egemonia sul Golfo, con buona pace della dottrina Carter).

Che si tratti di una boutade funzionale alle trattative sulla quotazione (la piazza di Londra sembrava avvantaggiata rispetto a New York, la pubblicazione dell’ipotesi cinese potrebbe suonare da sveglia per l’Amministrazione di Washington) o di un’ipotesi in qualche modo fondata, la centralità del bacino atlantico per il mercato globale è ormai nei libri di storia. Resta da capire se la struttura di mercato globale e le istituzioni internazionali (IEA in primis) saranno in grado di fare posto ai nuovi grandi consumatori (Cina e India) mantenendo l’efficienza e la flessibilità mantenute nei decenni passati.