Dubbi in agguato sulla rivoluzione del non convenzionale

EIA-2014-ProjectionNegli ultimi anni da più parti è stato sottolineato come lo sfruttamento degli idrocarburi non convenzionali abbia trasformato profondamente lo scenario energetico degli Stati Uniti, garantendo all’industria oltre-oceano energia abbondante e a prezzi ridotti. La International Energy Agency (IEA)  è arrivata fino a ipotizzare un Nord America esportatore netto di idrocarburi attorno al 2030, situazione ben diversa da quella prevista solo una decina di anni fa.

Centrale in queste previsioni, oggetto di forte invidia da parte dei politici e delle associazioni industriali europee, è tuttavia la consistenza e l’economicità delle risorse di shale/tight oil/gas disponibili nel sottosuolo americano. In sostanza, tutto di pende dall’ammontare delle riserve, ossia dalla quantità di idrocarburi ragionevolmente sfruttabili con riferimento a certi livelli di prezzo e a certe tecnologie.

La stima delle riserve americane è andata in generale crescendo negli ultimi anni, ma ha anche conosciuto forti fluttuazioni, dovute i) alla difficoltà di quantificare l’ammontare di gas e petrolio tecnicamente estraibile e ii) alle notevoli variazioni nei prezzi, in particolare del gas (negli USA il prezzo del gas è variato tra i 2 e i 6 $ per milione di BTU negli ultimi anni).

Come esempio di quanta incertezza sia associata al livello delle riserve possiamo citare il probabile e drammatico downgrade delle riserve di petrolio della Monterey Shale Formation in California: secondo quanto riportato dal Los Angeles Times l’Energy Information Administration (EIA) starebbe per pubblicare delle nuove stime, inferiori del 96% (!) a quelle fornite un paio di anni fa.

Normale dunque che la stessa EIA nel suo recente Outlook presenti scenari futuri piuttosto diversi per quanto riguarda la produzione di idrocarburi. Nel Low Oil and Gas Resource Scenario la produzione petrolifera US raggiungerebbe il picco attorno al 2017 con circa 9 milioni di barili estratti al giorno (mb/d), subendo poi una progressiva contrazione fino a circa 6-7 mb/d nel 2040. Nel High Oil and Gas Resource Scenario, invece, la produzione continua a crescere fino a 13-14 mb/d nel 2040, rendendo così gli USA un piccolo esportatore netto di petrolio.

Insomma, l’incertezza domina il settore degli idrocarburi, sia per ragioni geologico-ingegneristiche che per ragioni economiche, ed è quindi auspicabile prudenza nei giudizi…e negli investimenti.

L’impatto del non convenzionale sulle relazioni internazionali

John M. DeutchCome ormai è noto, gli Stati Uniti hanno conosciuto negli ultimi 4-5 anni una rivoluzione energetica analoga per importanza a quella che si sta cercando di attuare in Europa. Tuttavia, se da questa parte dell’Atlantico si cerca di promuovere tramite i sussidi pubblici lo sviluppo delle fonti rinnovabili, dall’altra parte dell’oceano sono le imprese private del comparto petrolifero che hanno aperto la strada allo sfruttamento di enormi giacimenti di gas e petrolio non convenzionali.

Le conseguenze di questa rivoluzione si stanno oggi manifestando appieno e stanno portando gli USA verso l’autosufficienza energetica in termini netti (si esporta carbone e si importano uranio e petrolio). Per il professore del MIT nonché ex direttore della CIA, John Deutch, che ha tenuto ieri a Milano una lezione presso il FEEM, questo non significa che gli USA diventeranno energeticamente indipendenti, ma semplicemente che dipenderanno molto meno dalle importazioni di materie prime energetiche dall’estero.

Ciò, a sua volta, permetterà a Washington una maggiore libertà sullo scenario internazionale e rappresenterà certamente un duro colpo, sia dal punto di vista economico che politico, per quei Paesi produttori che dipendono molto dalle quotazioni sostenute del greggio (vedi Russia e Iran, ma anche Venezuela). Quotazioni che per Deutch dovrebbero attestarsi sui 70-90 $ al barile nei prossimi anni.

Secondo Deutch, in sostanza, la rivoluzione del non convenzionale avrà effetti positivi e duraturi (15-20 anni) per i consumatori di tutto il mondo. A patto, naturalmente, che l’industria sia in grado di gestire al meglio l’impatto ambientale che le attività di fracking comportano, smontando così una delle maggiori cause di opposizione da parte delle comunità locali allo sfruttamento degli idrocarburi non convenzionali.

Anche l’Economist a volte sbaglia

 Money talks: March 3rd 2014 - Sabre-rattling and stocksIn questi giorni sono apparsi sui media numerosi commenti sulle possibili implicazioni della crisi russo-ucraina. Come spesso accade, tuttavia, non sempre si parla a proposito o in maniera obiettiva.

Anche l’Economist, fonte di solito molto affidabile, ha espresso una posizione quanto meno non precisa nella rubrica Money Talks.

Nel video uno dei giornalisti sottolinea come l’Europa sia troppo dipendente dal gas russo (25% dei consumi) e come la gran parte di questo passi attraverso l’Ucraina (80%). Conclusione: nel medio-breve termine l’UE è minacciata dalla crisi politica tra Russia e Ucraina e deve intervenire, promuovendo tra le altre cose il ricorso allo shale gas e incoraggiando le recenti aperture dell’Amministrazione USA sull’esportazione di gas nord-americano.

Ora, che l’80% del gas russo diretto in Europa passi dall’Ucraina mi sembra quanto meno un’affermazione capziosa: può anche essere, ma con il Nord Stream e il Yamal Europa disponibili, solo 100 Gmc di capacità di esportazione annua su un totale di circa 180 Gmc passano in suolo ucraino.

Se ci aggiungete il fatto che i consumi europei sono in calo per la crisi economica (i gasdotti stanno lavorando a capacità ridotta) e che la primavera è alle porte, è possibile dire che ad essere minacciati sono solo alcuni Paesi membri dell’UE, come la Slovacchia o la Bulgaria, mentre per gli altri i pericoli sono molto modesti.

Che poi la decisione dell’amministrazione USA di autorizzare la realizzazione di qualche impianto di rigassificazione possa aiutare l’Europa nel medio termine mi sembra fantasia: prima di uno o due anni nessuno degli impianti sarà pronto e anche quando lo sarà rappresenterà solo una piccolo porzione dell’offerta mondiale di GNL. Gli USA non saranno un esportatore significativo di gas prima del 2020 e, probabilmente, non lo saranno mai.

Lo stesso dicasi per le risorse di shale europee: anche se tutti i governi europei dessero oggi il via libera al suo sfruttamento, sarebbero necessari 5-10 anni per avere una produzione significativa. Ci vuole del tempo per creare da zero un’industria.

Come più volte detto su questo blog, bisogna stare attenti quando si leggono notizie sui temi energetici: spesso chi scrivi non è ben informato o, peggio, dice solo delle mezze verità per poter sostenere la sua posizione.

Le conseguenze inaspettate dello shale boom

La NASA ha recentemente pubblicato sul suo sito un’immagine notturna scattata dallo spazio (riportata anche dal FT), che illustra in modo piuttosto inquietante un’effetto indesiderato, e se vogliamo inaspettato, del recente boom del gas da scisti.

La foto mostra come l’area occidentale del North Dakota, uno degli stati meno abitati degli USA (densità 3,7 abitanti/km2 – tanto per capirci la Lombardia ha una densità di 420 ab./km2) e dove più è cresciuta negli ultimi anni l’attività estrattiva legata allo shale gas e allo shale oil (Bakken formation), sia “illuminata a giorno” a causa del gas flaring, la pratica di bruciare il gas naturale associato al petrolio che non si riesce a commercializzare economicamente.

La ragione di questo spreco (si parla del 30% del gas estratto) è semplice. Il boom dello shale ha depresso talmente tanto i prezzi del gas nel Nord America, che a molte società petrolifere non conviene realizzare i gasdotti e le altre infrastrutture necessarie a convogliare il gas verso i centri di consumo. Piuttosto che far ciò, si preferisce liberare il gas nell’atmosfera (gas venting) o bruciarlo all’uscita del pozzo. In ogni caso si verifica uno spreco e si crea una nuova e non trascurabile fonte di inquinamento.

Lungi dal voler esprimere un giudizio negatico sull’estrazione del gas da scisti, la mia intenzione qui è solo quella di sottolineare come sia spesso difficile valutare a priori i costi e i benefici di una certa attività umana a causa delle numerose “unintended consequences” che si generano.

Alcuni esperti hanno sottolineato come lo shale gas abbia permesso agli USA di ridurre il consumo di carbone nella generazione elettrica e di limitare le emissioni clima-alteranti più di quanto abbia fatto l’Europa negli ultimi 2 o 3 anni. Siamo sicuri che se si contassero le emissioni legate al gas flaring e al gas venting la bilancia sarebbe ancora positiva?

Come spesso accade, il diavolo si annida nei dettagli…