Caucaso meridionale: un decennio movimentato

http://www.ispionline.it/sites/defau</a>L’Italia e il <strong>Caucaso meridionale</strong> sono più vicini di quanto lascerebbero supporre i 3.000 km di distanza. E non solo perché in futuro il TAP porterà il gas azerbaigiano arriverà in Italia. Già oggi infatti il 20% dei consumi italiani di petrolio (circa 200.000 barili al giorno) arriva dal Caspio azerbaigiano e transita attraverso l’<a title=oleodotto BTC, che dal 2006 attraversa l’Azerbaigian e la Georgia.

L’inaugurazione del BTC è stato solo uno degli eventi che hanno reso l’ultimo decennio nell’area del Caucaso meridionale un momento cruciale per la storia delle tre repubbliche post-sovietiche della regione: Armenia, Azerbaigian e Georgia.

Capire qualcosa in più delle dinamiche più importanti nella regione può essere utile per valutare meglio i rischi per la sicurezza energetica italiana. Per chi fosse interessato ad approfondire il tema, segnalo una mio report pubblicato oggi dall’ISPI: A Decade in Motion. Southern Caucasus in 2003-2013.

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3 risposte a Caucaso meridionale: un decennio movimentato

  1. The Hooded Claw dice:

    Parlando di regioni strategicamente importanti, come lo vedi il fatto che sia Halliburton che Schlumberger stanno muovendo tecnologia verso il bacino siberiano occidentale col lo scopo di estrarre shale oil? A me sembra una scommessa a lungo termine considerando che anche se le riserve sembrano esserci l’estrazione ha bisogno seri miglioramenti tecnologici.

    • Matteo Verda dice:

      Lo vedo bene. Alla base del boom produttivo della Lukoil di Khodorkovsky ci fu il trasferimento tecnologico da parte di Schlumberg, guidato da un ingegnere di Tusla di nome Joe Mach che applicò tecniche mature (passato alla storia come pump, frack & flood), di fatto invertendo il delta della curva produttiva russa.
      In sostanza, credo che ci siano le condizioni per un aumento della produzione dalle aree storiche, traslando in là di un decennio la necessità di sfruttare giacimenti di frontiera con costi marginali più alti. Anche perché le resistente a una diffusione più marcata del fracking già a inizio decennio scorso si stanno allentando in seno alla comunità scientifico-tecnologica-operativa russa, sia per ragioni di evidenza empirica, sia per un naturale ricambio biologico.
      Tra l’altro, considera che come sempre la Russia è il paradiso dell’olio: regolazioni ambientali elastiche, abbondanza d’acqua e territori spopolati. A immaginarsi un idealtipo, non si andrebbe molto distanti. Le premesse per una curva di produzione stabile o in lieve crescita nel decennio in corso ci sono tutte.
      Tra l’altro, aggiungo una nota a margine: in un contesto che lascia sempre di più intravedere un sentiero di discesa del prezzo del petrolio (tra i fattori: dubbi sulla domanda cinese, scongelamento dell’export iraniano, aumento della produzioen irakena in linea con le mirabolanti aspettative, to name a few), la produzione russa manterrebbe così un costo marginale superiore solo a quello dei sauditi, ma competitivo con tutti gli altri.

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