L’asse franco-tedesco dell’energia: i dubbi

Le Figaro - Hollande propose un «Airbus franco-allemand de l'énergie»Nella conferanza stampa del 14 gennaio, il Presidente Hollande ha proposto un asse franco-tedesco per l’energia. La StaffettaQuotidiana ha interpretato la proposta come un’alleanza di piccole e medie imprese dei due Paesi, da costruire intorno all’Office franco-allemand pour les énergies renouvelables.

L’Office è una struttura intergovernativa creata l’estate scorsa dagli omologhi Delphine Batho e Peter Altmaier, in realtà poco più di un’esperienza simbolica, destinata soprattutto allo scambio di informazioni. Nel frattempo, i due sono stati tra l’altro sostituti da Philippe Martin e da Barbara Hendricks e non si sono registrati particolari passi avanti.

In più, secondo Reuters, EDF e E.On non sarebbero stati ufficialmente interpellati da parte dell’Eliseo sull’iniziativa ipotizzata da Hollande. A riprova del fatto che se qualcosa si sta muovendo, non riguarda (almeno ufficialmente) i giganti.

Eppure Le Figaro ricorda la cooperazione tra Framatom e Simens per la realizzazione del reattore EPR e si interroga sulla reale portata delle dichiarazioni di Hollande. D’altronde, coi suoi 56 miliardi di fatturato, Airbus è senza dubbio un termine di paragone piuttosto ambizioso.

Qualche chiarimento dovrebbe arrivare il 19 febbraio, in occasione del prossimo Consiglio dei ministri franco-tedesco. Quando si capirà se Hollande ha lanciato un ballon d’essai o se ha fatto riferimento a un progetto più avanzato. Intanto, purtroppo una cosa è certa: l’Italia continua a non essere un partner attraente.

Hollande: un asse franco-tedesco nell’energia

François Hollande - Ouverture de la conférence de presse du président de la République au Palais de l’Élysée le 14 janvier 2014«Dobbiamo coordinarci per la transizione energetica. Questa è una grande scommessa per l’Europa. Ma noi, la Francia e la Germania, dobbiamo dare l’esempio […] nella costituzione delle filiere industriali comuni per la transizione energetica.

Siamo molto fieri dei risultati di Airbus, una grande impresa franco-tedesca […]. L’idea è quella di fare una grande impresa franco-tedesca per la transizione energetica».

C’è molta retorica nelle parole di Hollande, ma il progetto politico è chiaro (leggere o ascoltare per credere): l’integrazione europea deve essere in realtà un’integrazione franco-tedesca, con buona pace dei Paesi periferici.

E il Presidente cita tre punti chiave: stato sociale, difesa e energia. E proprio al modello industriale della difesa (Airbus) guarda la proposta francese: un campione franco-tedesco, tanto grande da puntare a dominare il mercato europeo e competere a livello globale.

E non rischiare noie dalla Commissione europea, che notoriamente ha un’avversione per i campioni nazionali e per uno Stato troppo interventista (invidia…?). Ma che dovrebbe ancora una volta arrendersi di fronte a una volontà comune franco-tedesca.

Nei fatti, è difficile dire a cosa potrebbe portare la proposta. Perché se dal lato francese è naturale guardare a EDF, su quello tedesco la frammentazione tra grandi operatori (E.on, RWE) e la limitata partecipazione pubblica (in mano a comuni e enti locali, peraltro) rendono davvero difficile trovare un referente. E immaginare uno sviluppo industriale a breve.

Eppure Hollande ha tracciato chiaramente una linea e ha toccato (direttamente o indirettamente) alcuni punti chiave per il governo tedesco: la transizione energetica, lo sviluppo di una filiera industriale di scala credibile, la difesa dei sussidi agli energivori di fronte agli obiettivi ambientali (e alle audaci iniziative del Parlamento europeo).

Se si andrà in quella direzione, l’effetto sarà un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia, ridotta ancora di più a mercato finale dove esportare tecnologia. E degli operatori italiani, ai quali si è impunemente impedito l’ingresso in grande stile su alcuni mercati e che certo non avrebbero vita facile a competere con una crescente ingerenza pubblica franco-tedesca.

Insomma, anche se per ora non stiamo parlando di fusioni in vista, il cuore del messaggio è chiaro: finché si tratta di imporre la concorrenza sui mercati periferici (e noi lo siamo, uh se lo siamo), tutti europeisti. Ma quando si tratta fare politica industriale, c’è chi sembra avere le idee molto chiare. Se a Roma c’è un governo, batta un colpo.

Nucleare? Arrivano i cinesi

Edf - Hinkley PointIn Italia il nucleare è – purtroppo – ormai solo un ricordo del passato, mentre il dibattito a Bruxelles sembra essere fossilizzato a quante rinnovabili sussidiare e a come limitare il ruolo di Gazprom. Intanto però il mondo va da un’altra parte.

A ricordarcelo è l’accordo quasi raggiunto nel Regno Unito per la realizzazione di un nuovo reattore nucleare a Hinkley Point, in Somerset. A costruire l’impianto saranno la francese Edf (che già opera la centrale) e un partner non ancora rivelato, che a quanto pare dovrebbe essere la China General Nuclear Power Group, uno dei due gruppi cinesi attivi nella costruzione di centrali (l’altro è China National Nuclear Corp).

Se finalizzato, l’accordo prevederà l’accesso dei cinesi alla tecnologia dell’European pressurised reactor (il modello da esportazione dell’industria nucleare francese), l’acquisizione delle procedure di sicurezza e delle capacità di gestione del processo di costruzione (esclusa per il momento l’ipotesi che i cinesi operino la centrale).

L’industria cinese è in questo momento molto attiva, con 29 reattori in costruzione solo in Cina (sì, 29: tre volte tanto le centrali ancora attive che i tedeschi vorrebbero chiudere). Questa ulteriore partnership in Europa darebbe tuttavia un contributo essenziale per competere sui mercati globali, soprattutto in Medio Oriente e in Asia (determinanti sia la tecnologia sia la padronanza delle norme di sicurezza europee).

Un patto col diavolo per Edf, ma necessario per trovare i fondi necessari a far partire i lavori (la stima iniziale è di 16,5 miliardi di euro, ma si sa come vanno queste opere). La liquidità non è tuttavia un problema per il governo cinese, che mira tra l’altro in questo modo a diversificare la valuta dei propri investimenti.

Dal punto di vista britannico, il nodo più critico è quello del costo dell’energia: il nucleare è conveniente nel lungo periodo, ma gli investitori vogliono un ritorno subito (soprattutto i francesi). I termini dell’accordo sono segreti, ma secondo indiscrezioni il prezzo previsto sarebbe parecchio sopra i prezzi di mercato attuali (90-92 sterline a MWh, contro un prezzo medio odierno tra 50 e 60 e uno atteso a 15 anni di circa 80).

Un caro prezzo, ma con diversi vantaggi. Oltre alla diversificazione e agli investimenti diretti, il Regno Unito avrebbe infatti portato a casa un altro risultato di peso: ospitare a Londra il primo mercato autorizzato a trattare il reminby, la valuta cinese che prima o poi dovrà iniziare la transizione in uscita dal cambio fisso. A beneficiare saranno anche i rapporti tra Londra e Parigi, magari con un occhio alla rinegoziazione delle condizioni di appartenenza all’Ue per i Paesi non-euro.

Per i britannici il nucleare rappresenta anche un modo di ridurre le emissioni di anidride carbonica, in vista dell’obiettivo nazionale di decarbonizzazione dell’economia al 2050. Importante per gli equilibri politici interni britannici, ma ininfluente a livello globale: nei prossimi 20 anni, i cinesi installeranno 280 GW solo di nuove centrali a carbone (a conferma che la riduzione delle emissioni è un business molto europeo). Il nucleare è solo un tassello.