La vendita di Saudi Aramco: che cosa c’è sotto?

Saudi aramcoIn questi giorni ha fatto molto clamore la notizia che la famiglia regnante saudita potrebbe vendere una parte della compagnie petrolifera di stato Saudi Aramco, il più grande produttore al mondo di petrolio greggio.

Si tratta senza dubbio di una novità importante, che segnala la necessità, percepita almeno da una parte della famiglia regnante, di avviare profonde riforme nel paese al fine di affrontare le sfide interne ed esterne, rese oggi più urgenti dal calo delle quotazioni petrolifere.

Sull’argomento, e sulle sue cause/implicazioni politiche, segnalo un articolo apparso ieri su le Formiche, al cui interno mi è stato chiesto di esprimere la mia opinione. Come si può leggere, ritengo che il senso delle dichiarazioni del principe saudita intervistato dall’Economist sia la volontà di utilizzare la difficile congiuntura economica per avviare un processo di riforma della società e dell’economia saudita, che porti a ridimensionare il ruolo del petrolio e dello stato, promuovendo invece l’iniziativa privata e l’apertura agli investitori esteri.

Si tratta a ben vedere di un percorso difficile, che non sappiamo quanto sia condiviso nel governo saudita, ma che sembra necessario se si è convinti che il sistema attuale non sia economicamente sostenibile nel lungo periodo. In questo senso, l’idea di vendere una parte di Saudi Aramco potrebbe confermare la convinzione da parte degli arabi che i prezzi del greggio resteranno bassi per un periodo piuttosto lungo (quanto lungo è difficile dirlo ovviamente) e che quindi si dovrà ridurre il deficit con nuove entrate/tagli della spesa e promuovendo l’investimento privato e la diversificazione economica.

Insomma, il new normal richiede adattamento, non solo da parte dei produttori indipendenti americani, ma anche da parte dell’Arabia (non più tanto) felix.

I rischi connessi all’approvvigionamento energetico italiano

Rischi globali e rischi regionali nel corso del 2015

L’Osservatorio di politica internazionale (Senato, Camera e MAE) ha pubblicato il rapporto preparato dall’ISPI su Rischi globali e rischi regionali nel corso del 2015. Tra gli scenari globali, si trova anche una sezione dedicata ai rischi connessi all’approvvigionamento energetico italiano, riportata qui di seguito.

“L’approvvigionamento energetico italiano presenta tre profili di rischio relativi alle dinamiche attese per il 2015, legati sia alla stabilità dei flussi di materie prime, sia alle minacce e alla competitività derivanti dai consumi energetici.

Il primo è la possibile destabilizzazione dei due grandi produttori energetici nordafricani, Algeria e Libia, che avrebbe ricadute particolarmente gravi nell’approvvigionamento nazionale di gas naturale. In caso di simultanea interruzione dei flussi, data l’assenza di altre infrastrutture di adduzione nell’area meridionale del nostro paese, l’afflusso di gas nelle regioni del Mezzogiorno presenterebbe notevoli criticità.

Il secondo rischio deriva dal permanere di basse quotazioni petrolifere (inferiori ai 50 dollari al barile) nel corso di tutto l’anno. Per molti paesi produttori, infatti, si tratta di una soglia inferiore a quella minima per mantenere in modo prolungato la stabilità sociale attraverso la spesa pubblica. In caso di destabilizzazione di uno o più dei medi produttori rilevanti, le quotazioni del greggio potrebbero risalire molto rapidamente, con grave danno per la bilancia dei pagamenti e per l’andamento dell’economia nazionale.

Il terzo rischio riguarda la competitività del sistema energetico nazionale, già gravata dalle scelte europee in tema di riduzione delle emissioni e di promozione delle rinnovabili. Se nella Conferenza delle parti di dicembre 2015 non si trovasse a livello globale un accordo ambizioso e universalmente vincolante per la riduzione delle emissioni, l’adozione unilaterale da parte dell’Ue di ulteriori obiettivi per il 2030 rischierebbe di compromettere in modo sempre più grave la competitività delle attività industriali produttive nazionali senza ricadute benefiche significative sul livello delle emissioni mondiali.”

Il prezzo del petrolio può scendere ancora

Il prezzo del petrolio può scendere ancoraSegnalo una mia intervista uscita oggi su Il Nodo di Gordio, di cui propongo di seguito l’incipit.

Il prezzo del petrolio ha sforato oggi a ribasso i 40 dollari al barile. Ritiene si tratti di un prezzo soglia o, per le informazioni a Sua disposizione, è ipotizzabile un ulteriore calo?
Un ulteriore calo è senza dubbio possibile. All’orizzonte ci sono grosse preoccupazioni circa il tasso di crescita della domanda petrolifera dei Paesi emergenti. E con l’offerta che continua a crescere, meno domanda del previsto vorrebbe dire prezzi ancora in discesa. Gli operatori, finanziari e non, si stanno muovendo nelle ultime settimane sulla base di aspettative di questo genere.

L’Arabia Saudita si è già ritrovata con problemi di liquidità. Quanto può andare avanti con prezzi del petrolio così bassi senza ripercussioni sulla propria economia?
L’Arabia Saudita sta ricorrendo al mercato debito, è vero. Ma controlla enormi riserve di liquidità, oltre che di greggio. Per quanto l’impatto negativo sull’economia sia inevitabile, per il Paese non ci sono al momento rischi specifici di instabilità politica dovuta al taglio delle spesa pubblica. Le finanze saudite sono in grado di andare avanti ancora per parecchi trimestri senza grossi elementi di rischio, anche considerando che le contromisure in termini di ristrutturazione della spesa pubblica sono già in atto.

Il resto dell’intervista è accessibile qui.

Tensioni in Libia ma non sui mercati del petrolio

mappa-libia-cirenaica3Nonostante le numerose tensioni geopolitiche che hanno caratterizzato questo primo scorcio di 2015, il prezzo del petrolio, dopo un mini-rimbalzo a inizio febbraio, si mantiene su livelli piuttosto contenuti, attorno ai 60 $ al barile.

In particolare, la situazione di profonda crisi che caratterizza la Libia non sembra incidere troppo sulle quotazioni internazionali.

Su questo tema vi segnalo un mio breve contributo apparso oggi su AgiEnergia.

Greggio: è iniziata la risalita?

Oil-price.net - Crude Oil and Commodity PricesIl prezzo di un barile di Brent è tornato sopra quota 55 dollari, dopo essere stato ampiamente sotto i 50 dollari nell’ultima parte di gennaio. La domanda è naturale: siamo di fronte a una risalita?

Ci sono segnali che vanno in direzioni opposte, come spiega FT. Per cominciare, diversi sono gli indizi che portano nella direzione di un aumento immediato dei prezzi.

Sul lato dell’offerta, il numero di impianti di trivellazione in funzione negli Stati Uniti ha iniziato a contrarsi, perché i giacimenti non convenzionali hanno bisogno di trivellazioni continue e dunque i produttori indipendenti che li sfruttano posso rispondere più rapidamente alle variazioni di prezzo sospendendo le operazioni.

Peraltro, anche gli investimenti in produzione convenzionale stanno rallentando drammaticamente: Royal Dutch Shell, ConocoPhilips e BP sono le majors che hanno annunciato i tagli più grossi, ma la tendenza a sospendere i progetti più costosi è generalizzata.

Sul lato dell’offerta, la domanda sta iniziando a crescere in risposta ai prezzi più bassi, soprattutto dove i prodotti petroliferi sono meno tassati, ossia negli Stati Uniti. La domanda statunitense di benzina ha infatti superato in media i 9 milioni di barili al giorno per tutto il mese scorso.

Infine, a confermare (forse) le aspettative di rimbalzo sono arrivate le dichiarazioni del segretario generale dell’OPEC, Abdalla El-Badri, che ha detto di recente che le quotazioni petrolifere “maybe prices have reached a bottom”. Sibillino, ma per alcuni analisti potrebbe essere un appiglio.

Tuttavia, anche i segnali di una possibile ripresa della discesa dei prezzi non sono trascurabili. In primo luogo, la produzione interna statunitense continua a crescere per effetto degli investimenti dell’anno scorso e la settimana scorsa ha raggiunto il livello di 9,2 milioni di barili al giorno, il più alto degli ultimi 31 anni.

Inoltre, dai produttori OPEC continua a non arrivare alcun segno di riduzione dei volumi e addirittura i due membri africani, Angola e Nigeria, hanno aumentato la produzione per cercare di restare a galla finanziariamente, portando a gennaio la produzione complessiva del cartello a 30,37 milioni di barili al giorno.

Sul lato della domanda, ci sono parecchi dubbi sul ritmo della crescita globale, soprattutto dopo che l’IMF ha tagliato di 0,3 punti percentuali le previsioni di crescita per il 2015 e il 2016, rispettivamente a 3,5% e 3,7%.

Qualche segnale di sfiducia arriva infine anche dai mercati finanziari, dove gli hedge funds stanno scommettendo su un nuovo ribasso del WTI, esponendosi come non si vedeva dal novembre 2010.

Insomma, troppo presto per tirare le conclusioni. Ma se il prezzo dovesse ripartire, potremmo presto trovarci presto a discutere dei downsides of expesive oil.

Il calo delle quotazioni del greggio: un bene o un male per i paesi importatori?

petrolioStamattina ho letto sul Sole 24 Ore un lungo articolo in cui si riportavano le opinioni di vari analisti finanziari sugli effetti del calo delle quotazioni petrolifere.

Data l’entità della variazione del prezzo (-60% circa se calcolato in dollari, -45% circa se calcolato in euro) e l’importanza della commodity (anche perchè rappresenta un riferimento di prezzo per altre fonti di energia), l’impatto sul quadro macro-economico può essere significativo, sia in positivo che in negativo.

Nell’articolo si sottolineano i vari rischi che il ribasso comporta, in particolare le perdite finanziarie per le imprese energetiche e le società finanziarie, nonché la minore domanda di investimenti nel settore oil&gas.

Ad ogni modo, credo che per paesi come l’Italia i vantaggi sono e saranno maggiori degli svantaggi: maggiore potere di acquisto grazie alla riduzione della spesa per energia e trasporti, rafforzamento del dollaro e quindi dell’export (salvo ovviamente che verso i paesi esportatori di greggio), sollievo per il settore della raffinazione.

Non credo molto alle minacce di una deflazione indotta dal calo di materie importate e ai danni che essa produrrebbe. Molto più colpevole è un’indiscriminata politica di austerità delle finanze pubbliche.

Nel complesso quindi il calo dovrebbe essere una cosa abbastanza buona, a meno che non siate azionisti di Eni, Tenaris o creditori del Venezuela. Ma questa è un’altra storia.

PS: commenti da parte di macro-economisti sono ben accetti.

PPS: per chi oggi fosse a Padova, consiglio un convegno al Centro Levi Cases dell’Università di Padova. Massimo Nicolazzi parlerà di idrocarburi non convenzionali e dell’impatto del loro sfruttamento sui mercati energetici.