Il piano della Commissione per ridurre le importazioni di gas dalla Russia

La Commissione europea ha pubblicato l’8 marzo scorso una comunicazione dal titolo REPowerEU: azione europea comune per un’energia più sicura, più sostenibile e a prezzi più accessibili, che mira ad accelerare la decarbonizzazione dell’economia europea, a cominciare dalla riduzione di addirittura due terzi delle importazioni di gas dalla Russia entro la fine del 2022.

A pesare sulle prospettive di fattibilità del progetto, a parte il fatto che il gas russo ha un costo di produzione decisamente inferiore a qualunque altra fonte di importazione disponibile, vi sono diversi fattori.

Sulla questione fa il punto uno studio dell’Oxford Institute for Energy Studies, The EU plan to reduce Russian gas imports by two-thirds by the end of 2022: Practical realities and implications, che indica tra i principali problemi del piano europeo l’effettiva disponibilità di volumi di GNL (che andrebbero reindirizzati dai mercati asiatici), la capacità degli altri fornitori via tubo dell’Europa di sostenere per tutta l’estate livelli produttivi nettamente superiori alle previsioni, nonché la concreta disponibilità di margini di flessibilità sul lato della domanda.

Aggiornamento: sulla questione, si segnala anche il post di RIE Energia dal titolo Le risposte energetiche alla crisi ucraina e lo spettro delle emissioni, firmato da Alberto Clô, che nell’analizzare la situazione conclude notando come emerga “un quadro generale in cui non si riuscirà sostanzialmente a liberarci in tempi brevi dal gas russo, mentre continueranno ad aumentare emissioni e prezzi dell’energia“.

Fare a meno della Russia?

Analizzando un eventuale stop alle importazioni europee di energia dalla Russia, l’attenzione va sempre alle criticità legate all’ipotesi di affrontare il prossimo inverno senza gas russo, date le rigidità infrastrutturali e l’alta dipendenza di tutta l’Europa centro-orientale.

Tuttavia, anche fare a meno di petrolio e carbone russi si rivelerebbe un problema, difficile da gestire e costoso. Un interessante studio di Bruegel mostra che, con tutte le complessità e gli oneri del caso, i Paesi europei potrebbero farcela.

Certo, a che prezzo e con quali impatti inflattivi sulle prospettive di crescita non rosee dell’Unione è un altro discorso.

FT – Le questioni energetiche per il 2019

FT - Energy issues to watch in 2019Secondo Nick Butler del Financial Times, sono quattro le variabili principali che nel 2019 la cui evoluzione dovrebbe influenzare in modo determinante gli equilibri dei mercati e delle società del settore:

  1. l’impatto delle sanzioni statunitensi all’Iran, che ha già perso 1 Mbbl/g di esportazioni (a prezzi di mercato correnti, parliamo di un controvalore nell’ordine dei 20 miliardi di dollari su base annua). Quanto le esportazioni residue (1,1 Mbbl/g), è possibile che aumentino (se Teheran troverà altre vie di esportazione, magari verso la Cina o l’India) o che si riducano ulteriormente (obiettivo dichiarato di Washington, che metterebbe spingere al limite la capacità degli altri esportatori), molto dipenderà da quanto gli Stati Uniti saranno in grado di fare pressioni sui possibili acquirenti. Secondo Butler, in base all’esito potrebbero esserci oscillazioni fino a 20 $/bbl, in su o in giù;
  2. il volume degli investimenti nel settore energetico, con conseguenze di lungo periodo. Secondo la IEA, il settore ha bisogno di 2.200 miliardi di dollari di investimenti di qui al 2025 e non è chiaro se tutti gli attori coinvolti vorranno o potranno investire abbastanza. Le società private potrebbero infatti non voler accettare il rischio geopolitico connesso a molti investimenti upstream (o potrebbero direttamente non avere accesso ai Paesi, a cominciare da Venezuela, Russia e Iran), mentre le società statali potrebbero non disporre delle risorse finanziarie necessarie a investire abbastanza, soprattutto nell’adeguamento delle reti elettriche esistenti;
  3. il consolidamento nel settore delle rinnovabili. Gli operatori del settore sono altamente frammentati e incapaci di avere la scala necessaria a investire in innovazione e in investimenti di lungo periodo su scala globale. Chi porterà avanti il consolidamento? Le opzioni sono tre: le società del settore, attraverso un consolidamento interno; società come Apple o Google, in grado di usare dimensioni e digitalizzazione per far fare un salto di qualità a settore; investitori finanziari, con la visione di creare compagnie globali nel settore;
  4. le strategie degli attivisti contro le emissioni di CO2. Dopo gli esiti poco incisivi della COP24 di Katowice, le ONG più attive nella campagna contro il cambiamento climatico potrebbero ricorrere alle vie legali (tipicamente, solo negli USA) contro le società petrolifere e del carbone per costringerle a pagare per le emissioni collegate ai prodotti che vendono. Naturalmente, finora questa via ha sempre fallito. Nondimeno, gli sforzi continuano anche lungo un’altra via: gli attivisti cercano di fare causa alle società (Exxon su tutte) per aver sottostimato nelle relazioni agli investitori il danno al proprio business derivante dal cambiamento climatico. Un po’ arzigogolato, ma se si dovesse trovare il giudice simpatetico, i risultati sulle società quotate negli Stati Uniti potrebbero essere molto gravi.

Queste le principali questioni, certamente non le uniche (basti pensare alla questione dei rapporti con la Russia, a quella dell’andamento della domanda cinese e alle incertezze sulla stabilità in molti Paesi esportatori, dalla Libia al Venezuela, dall’Iraq alla Nigeria). Butler ha sicuramente ragione quando conclude che l’unica previsione sicura sul 2019 è che non sarà un anno noioso. D’altronde, gli anni noiosi mancano da tempo nel settore energetico.