La crisi del settore della raffinazione in Europa

ISPI - 2014 in refining: Europe is ailing, Italy is worseDue giorni fa è stato segnalato un post di Simona Benedettini sul mercato della capacità inglese. Oggi, vi rimando al secondo post apparso sul nuovo Osservatorio energia dell’ISPI.

Il pezzo, firmato da Matteo Villa, fa il punto della situazione sull’andamento del settore della raffinazione del petrolio in Europa e tratteggia un quadro piuttosto fosco.

Dalla crisi finanziaria del 2008 in poi l’Europa ha visto le proprie raffinerie fronteggiare da un lato il calo della domanda interna e dall’altro la crescente competizione dei produttori extra-UE, col risultato che i margini si sono notevolmente ridotti e si è registrata la chiusura di alcuni stabilimenti, non ultimo nel nostro paese.

Insomma, anche la raffinazione soffre nel Vecchio continente dell’eccesso di capacità e della mancata crescita dell’attività economica. Da sette anni ormai, il Pil europeo è stagnante e grazie alla maggiore efficienza la domanda di energia non può che essere in calo.

In questo contesto negativo, il calo dei prezzi del greggio degli ultimi mesi può dare una temporanea boccata d’ossigeno, ma non è affatto sicuro che questa cosa durerà a lungo e che i problemi del settore si ridimensioneranno. Anzi, il dato strutturale è che senza politiche adeguate la UE rischia davvero di perdere un settore economico storicamente molto importante.

Mercato LNG e Politica energetica europea

casp_report_8_bykSegnalo la pubblicazione da parte Caspian Strategy Institute del nuovo numero del Caspian Report, all’interno del quale potete trovare la mia sintesi dell’accordo europeo su energia e clima dello scorso ottobre (pp. 128-131), ma soprattutto un articolo di Matteo Verda sulle prospettive attuali per il mercato del gas naturale liquefatto (pp. 34-43).

Buona lettura e un augurio di felice anno nuovo a tutti i lettori di SicurezzaEnergetica.

Quanto è difficile essere obiettivi, onesti e accessibili nel fare informazione

ReportUsualmente sono uno spettatore contento di Report, che reputo uno dei pochi programmi di giornalismo d’indagine di buon livello che viene fatto in Italia e che va a fare le pulci a politici, imprenditori, sindacati e quant’altro.
Proprio per questo sono tuttavia deluso da una parte della trasmissione andata in onda domenica 21 dicembre, ‘O sole mio, che si proponeva di aggiornare l’analisi condotta in una puntata della scorsa primavera dedicata al fracking.
Tra le inesattezze, imprecisioni o affermazioni che a un pubblico poco preparato possono risultare tendenziose mi limito a indicare:
• Min. 2: parlando del rischio sismico in Italia non si distingue bene fra i rischi connessi all’estrazione di idrocarburi, che non necessariamente avvengono col fracking, e i rischi connessi all’immissione e estrazione di gas da siti di stoccaggio, attività che non impiega tecniche simili a quelle del fracking.
• Min. 3: qualche decina di trivellazioni fatte a 10-20 km dalla costa o in alcune aree poco abitate (Basilicata) non credo danneggino il turismo italiano più di quanto non facciano la scarsità dei collegamenti di trasporto, il poco inglese degli operatori o l’edificazione di centinaia di centri commerciali e capannoni industriali.
• Min. 3: vero, l’industria estrattiva è a bassa intensità di lavoro, ma può dare sbocco a produttori di tecnologia e lavoro a varie centinaie di persone altamente specializzate (ingegneri, geologi,..) oltre che a qualche migliaio di operai. Come al solito, dirimente è l’origine di questi fattori della produzione e l’effetto moltiplicatore che può generare. Se fossero tecnologie e ingegneri italiani forse il gioco varrebbe la candela.
• Min. 4: non si capisce cosa si intenda e in base a che assunzioni si possa affermare che il 75% dei danni ambientali causati dall’inquinamento (????) provengano dalla produzione di energia. D’altra parte essendo l’energia utilizzata in ogni attività, l’affermazione rischia di perdere di significato. Un numero messo così credo miri impressionare e non ad informare.
• Min. 4: riportando il dato dei costi ambientali stimato dalla EEA, il giornalista riferisce a parole il limite estremo del range indicato nel testo del documento (169 mld di euro) e non anche quello minimo (102 mld): un po’ asimmetrica come lettura.
• Min. 6: la produzione elettrica da fotovoltaico non può sostituire quella da gas o carbone perché se il sole non c’è, anche avere 1.000 km2 di pannelli fotovoltaici non basterebbe a coprire la domanda. Gli impianti fotovoltaici NON rimangono per sempre: dopo 20-25 anni i pannelli si degradano e vanno sostituiti. La Road Map 2050 non è ancora vincolante: è solo una proposta della Commissione europea in risposta a un impegno vago preso dal Consiglio europeo di ridurre entro il 2050 le emissioni clima-alteranti dell’80-95%.
• Min. 6: le riserve provate di idrocarburi in Italia valgono sì meno di 2 anni di fabbisogno (a spanne), ma il loro sfruttamento a tassi ragionevoli, anche doppi di quelli attuali, causerebbe il loro esaurimento fra non meno di 10-15 anni, tempo sufficiente ad ammortizzare gli investimenti. E tutto questo senza dimenticare che le riserve provate potrebbero anche crescere nel tempo a seguito di nuove scoperte geologiche e/o tecnologiche.
• Min. 7: non è vero che il gas in Italia viene usato soprattutto per fare elettricità: più della metà viene usato per produrre calore nelle case o nelle industrie. E di nuovo, il fotovoltaico può sostituire solo parte della produzione elettrica da gas (di notte come si fa? Le batterie non sono ancora economiche e hanno pure esse costi ambientali).
• Min. 8: a fronte di (circa) 70 mld di euro annui di fonti energetiche importate dall’Italia non si cita che l’investimento in rinnovabili nel 2011-13 è stato in Italia di circa 30-40 mld di euro, il quale ci permette sì di ridurre le importazioni, ma dato che le rinnovabile aggiunte hanno coprono solo il 3-4% della domanda totale di energia primaria, si vede bene che si tratta di un investimento costoso e non molto efficace (in termini di importazioni evitate).
• Min. 9: il contenuto del servizio devia paurosamente dall’argomento che doveva essere aggiornato, ossia il tema della sismicità legata alle attività estrattive: non se ne parla più. Forse non ci sono molti argomenti o forse si voleva fare una puntata pubblicitaria al solare.
• Min. 10: la filiera delle rinnovabili è in crisi e si perdono posti di lavoro. È vero, ma non si dica che si vuole ammazzare un settore che andava in contro-tendenza rispetto al ciclo economico nazionale! Con 20-30 miliardi di sussidi in 3-4 anni credo che anche il settore delle bambole gonfiabili sarebbe cresciuto e avrebbe assunto migliaia di lavoratori.
• Min. 15: anche le conclusioni della Gabanelli non citano nemmeno per striscio il tema di apertura (e della puntata di aprile che si doveva aggiornare).

Sperando che la colpa sia dovuta ai tempi stretti del giornalismo e non a malafede o impreparazione del giornalista, mi è parso utile segnalarlo su questo blog. Anche questo è servizio pubblico.

L’impatto locale della shale revolution

Corriere - Quel maledetto petrolio di PalermoIn questi giorni di discesa delle quotazioni del greggio ci si chiede se la shale revolution americana sia economicamente sostenibile oppure no. Si tratta di un tema importante per capire gli sviluppi che dobbiamo attenderci sui mercati energetici internazionali nei prossimi 12-18 mesi.

Nel frattempo però non si parla molto dell’impatto che il rapido sviluppo delle attività estrattive nei giacimenti shale ha avuto negli ultimi anni sulle comunità locali. Nel bene come nel male.

Per chi fosse interessato consiglio il reportage apparso oggi sul Corriere della Sera.

Nuove opportunità di lavoro e sviluppo, improvvise ricchezze, degrado ambientale, crescenti disparità e aumento della violenza sono tutte sfaccettature di un fenomeno che in 5-6 anni ha trasformato il North Dakota da povero territorio agricolo in uno dei maggiori produttori al mondo di idrocarburi.

NB: così come il piccolo villagio di Palermo ha conosciuto un boom eccezionale negli scorsi 5 anni, altrettanto velocemente potrebbe subire un netto ridimensionamento qualora il prezzo del petrolio non torni a salire. Stanti le prospettive più condivise, è lecito pensare che nuove città fantasma potrebbero apparire presto nello sconfinato Midwest americano.

Ancora sull’accordo clima-energia del Consiglio europeo

Hazar - The Eu Agreement On The 2030 Framework For Climate And Energy PolicySegnalo un mio riassunto e commento dell’accordo raggiunto dai Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea al Consiglio europeo dello scorso ottobre.

L’accordo, come noto, riguarda il quadro generale delle politiche sul clima e l’energia dell’Unione per il 2030 e va inteso come una prosecuzione della strategia 20 20 20 adottata dalla Ue nel 2009.

In particolare, a Bruxelles è stato deciso che entro il 2030 la Ue dovrà aver ridotto del 40% le emissioni di gas ad effetto serra rispetto al loro livello del 1990, dovrà coprire il 27% del proprio consumo finale lordo di energia tramite le rinnovabili, e dovrà, indicativamente, aver raggiunto un aumento dell’efficienza del 27% nell’uso dell’energia rispetto all’andamento tendenziale stimato nel 2007.

Al di là di alcuni parallelismi con la strategia 20 20 20 (i tre target), le differenze sono importanti e segnalano alcuni aggiustamenti (l’obiettivo sulle rinnovabili non è più vincolante per i singoli stati e lo strumento fondamentale viene identificato nell’ETS).

Ancora una volta infine, rimane in secondo piano l’efficienza energetica, l’obiettivo che a parole dovrebbe essere più economico da raggiungere per conseguire una maggiore sostenibilità, competitività e sicurezza del settore energetico europeo.

Il commento è disponibile qui.

La IEA dà i voti alla politica energetica della UE

iea_eu_reportA poche settimane dall’accordo del Consiglio europeo sul quadro energetico e climatico al 2030, la IEA pubblica una dettagliata analisi della politica energetica europea, evidenziando in particolare i risultati e le sfide emerse dopo il 2008, anno a cui risale il precedente (e unico) studio dell’agenzia parigina in merito.

Alla presentazione del rapporto avvenuta due giorni fa a Bruxelles, il direttore generale della IEA, van der Hoeven, ha evidenziato i grandi progressi ottenuti in questi sei anni e ha riconosciuto la leadership europea in materia di lotta al cambiamento climatico e promozione dell’efficienza energetica.

L’Europa, secondo la van der Hoeven, è ben avviata sulla strada della transizione a un’economia a basso contenuto di carbonio, ma deve comunque affrontare una serie di sfide non da poco.

Innanzi tutto, è necessario lavorare ancora al completamento del mercato interno, che è ancora diviso in mercati regionali, accrescendo le interconnessioni e le procedure di accoppiamento dei mercati. In secondo luogo bisogna aggiustare l’ETS, in modo che dia certezza agli investitori. È poi necessario continuare a sviluppare le rinnovabili, garantendone l’integrazione nel mercato interno e minimizzando gli effetti distorsivi sulla borsa elettrica. È inoltre necessario diversificare le fonti di approvvigionamento degli idrocarburi e promuovere un adeguato sfruttamento delle risorse interne. Infine, bisogna preservare un mix elettrico di base diversificato, che non veda la drastica riduzione nei prossimi anni del ricorso al nucleare e al carbone.

Per concretizzare queste e le altre raccomandazioni basate sul rapporto è necessario una forte Unione dell’energia, che metta in comune le risorse e coordini le iniziative dei vari stati membri. Proprio quest’ultimo accenno lascia intuire un certo allineamento di pensiero tra la IEA e la Commissione europea. Che siano unite nella lotta a ridurre il potere dei governi nazionali? 🙂